Metti la giacca, togli gli occhiali da sole, togli la felpa, chiudi l’ombrello, rimetti la felpa, apri l’ombrello, metti gli occhiali, togli la giacca, togli la felpa, chiudi l’ombrello, metti gli occhiali: benvenuti a Munnar, Kerala!
Detto così potrebbe sembrare un incubo, invece siamo in un vero e proprio paradiso in terra, non per nulla definito dagli stessi indiani la terra degli dei: siamo immersi apparentemente in dolci colline ondulate verdissime, coperte di splendide coltivazioni del tè, in realtà siamo a 1700mt di altezza. Il clima, decisamente volubile e freddino (siamo attorno ai 13 gradi) confermano l’altitudine.
Dopo ore di curve estenuanti e panorami mozzafiato, siamo arrivati nel cuore delle piantagioni del tè.
La sera abbiamo giusto il tempo per assistere allo spettacolo di katakali, la danza tradizionale del Kerala. Tutto molto esotico, costumi e maschere antichi, se non fosse per un paio di danze sul ritmo di un reggaeton e un pezzo heavy metal che ci lasciano un filo interdetti. Tommi ed io passiamo l’intero spettacolo rannicchiati sulla panchetta del teatro dopo aver notato un ragno di dimensioni mastodontiche frecciarci sotto i piedi.
Il secondo giorno lo abbiamo speso a caccia di animali selvatici lungo i laghetti-dighe della zona. Non ostante i vari tour vendano come del tutto normale vedere le tigri, in realtà nella zona non ce ne sono se non un paio, e meglio tutto sommano non incrociarle allo stato brado, non ostante l’allenamento con la tigre domestica.
Un po’ di fortuna ci assiste e avvistiamo un elefante selvatico che sgranocchia piante pacioso sulla riva di un lago e un pavone lungo la strada del ritorno.
Tornati a Munnar ci siamo lanciati dentro il mercato dell’ortofrutta: se c’è una tappa immancabile in ogni viaggio è proprio quella di immergersi in questi meravigliosi mercati, dove si riesce a vivere un momento di quotidianità locale e capire cosa finisce nelle pentole delle famiglie.
Il terzo ed ultimo giorno di Munnar è completamente dedicato al tè: abbiamo iniziato con un tracking nelle piantagioni, dove la guida locale ci ha insegnato la qualsiasi delle piante del tè, con quali foglie si fa quello bianco, verde e nero. Molte di queste piante hanno quasi 100 anni, risalgono alla colonizzazione inglese, sembrano siepi con radici arcigne che spuntano dal terreno rossissimo. Ora appartiene quasi tutto alla Tata company (si quella delle auto, ma anche energia, servizi, materie prime, beni di consumo, telecomunicazioni, …). I panorami, immersi nelle piantagioni, sono strepitosi non ostante il meteo che cambia 57 volte in poco meno di tre ore.
Incontriamo nel cammino le raccoglitrici del tè, bardate con spessi teli di gomma per non ferirsi con i rami delle piante. Raccolgono 50 kg di foglie ciascuna al giorno, tra mattino e pomeriggio, tutto l’annosa. Prima della pausa portano sulla testa il loro enorme sacco col raccolto per la pesatura in base alla quale verranno singolarmente pagati. Un trattorino raccoglie tutti i sacchi e li porta alla fabbrica dove verranno lavorate le foglie.
Assieme alle foglie andiamo anche noi alla fabbrica. Una guida ci porta all’interno della struttura, dove veniamo accolti prima da un fortissimo odore di prato tagliato, che piano piano, ad ogni fase di lavorazione, diventa sempre più quello del tè. La struttura ha macchinari che in buona parte risalgono ancora alla colonizzazione, e qui Kiki si emoziona visibilmente da buon ingegnere meccanico. Probabilmente alcune hanno la stessa età delle piante che abbiamo visto poco prima. Ci spiegano che l’intero ciclo di lavorazione dura appena 20 ore. Torniamo in albergo con immancabili sacchetti del tè km 0 (almeno fino a quando non torneremo a casa).
Kiki inizia ad essere in pesante astinenza da carne rossa: quando vede una vacca sacra sacrissima per strada, come Alex il leone di Madagascar, la vede a forma di bistecca. Ha già dichiarato guerra al pollo, unica carne reperibile: “non voglio più mangiare pollo per i prossimi sei mesi”.
Io ho sviluppato una fortissima dipendenza da piccante: sotto i 500.000 della scala di scoville il cibo mi sembra del tutto insapore. Purtroppo in Kerala ci vanno leggeri col piccante, mi manca la dose di spicy assassina del Tamil Nadu. La family ha già espresso aperta preoccupazione “quando torniamo tu non cucini per un po’, non ci fidiamo, poi metti peperoncino ovunque”.
I ragazzi si stanno bene o male abituando al cibo locale, persino Tommi ha osato assaggiare qualcosa di piccante, a volte per sbaglio a volte per fame.